venerdì 24 ottobre 2008

Riferimenti bibliografici

[D'Angelo] D'Angelo,editor. L'estetica della natura.
[Franco and Preisendanz] Franco,E. and Preisendanz,K. Nyāya-Vaiśeṣika,volume The Routledge Encyclopaedia of Philosophy. Routledge.
[Halbfass] Halbfass,W. On Being and What There Is.
[1] Halbfass,W. (1980). Karma,apūrva and ''natural'' causes: Observations on the growth and limits of the theory of saṃsāra. In O'Flaherty, W. D., editor, Karma and Rebirth in Classical Indian Traditions. University of California Press.
[2] Potter, K. H., editor (1977). Encyclopedia of Indian Philosophy. Indian Metaphysics and Epistemology: The Tradition of Nyāya-Vaiśeṣika up to Gaṅgeśa. Motilal Banarsidass.
[3] Schmithausen,L. (1991a).Buddhism and Nature. The Lecture delivered on the Occasion of the EXPO1990. An Enlarged Version with Notes.Number VIIin Studia Philologica Buddhica Occasional Paper Series. The International Institute for Buddhist
Studies.
[4] Schmithausen, L. (1991b). The Problem of the Sentience of Plants in Earliest Buddhism. NumberVI in Studia Philologica Buddhica Monograph Series. The International Institute for Buddhist Studies.

12.2 Lo status delle piante

Le filosofie e visioni del mondo più antiche in India concordano nel ritenere le piante esseri senzienti, compartecipi del nostro stesso tipo di destino. Anzi, in molti casi il confine del vivente è più amplio di quanto non riterremmo comunemente oggi. Vi sono inclusi anche i frutti, i semi (nel Vinayapiṭaka, una raccolta di testi del Buddhismo antico) e gli elementi (acqua e fuoco nel mondo vedico e nel Giainismo, pietre nella Bhagavadgītā). Questo può far sorridere un uditore odierno,ma probabilmente non farebbe sorridere un fisico,che sarebbe d'accordo nel ritenere l'acqua abitata da innumerevoli corpuscoli invisibili e non classificabili come “animali”. Nei testi si trovano perciò accenni alla possibilità di una reincarnazione come pianta o pietra.
Sul piano filosofico, solo nel Giainismo tali idee trovano una prosecuzione e una strutturazione. Il fondamento dell'etica giainista è infatti la nonviolenza (ahiṃsā), giacché è tramite la violenza (in pensieri, parole o atti) che viene prodotta la maggior quantità di karma (e l'aderenza del karma all'anima impedisce la liberazione). La nonviolenza include anche il non far commettere ad altri atti violenti e non approvarli in alcun modo e si rivolge egualmente a esseri umani, animali,piante,fino alle forme di vita più sottili e invisibili presenti nell'acqua o nel fuoco. Le piante in particolare sono dette viventi e senzienti, ma dotate del solo senso del tatto.
Una concezione simile sembra essere presupposta dalla proibizione, presente in un testo canonico del Buddhismo antico, di distruggere piante e semi. Le storie che accompagnano tale proibizione evidenziano anche come ritenere le piante esseri viventi fosse sentimento comune nella società dell'epoca (e, quindi, un monaco dovrebbe evitare di distruggere piante anche per rispetto nei confronti di tale sentimento comune).
Il raffinamento delle idee filosofiche opera però un progressivo distacco da tale opinione antica, in quanto la vita e la senzienza vengono sempre più identificate con facoltà superiori, considerate patrimonio esclusivo di uomini, esseri
divini e animali. Rimane l'idea che le piante debbano essere rispettate, ma non per se stesse,bensì in quanto abitate da insetti o altri esseri viventi.
Fuori dall'ambito buddhista,cito un esempio tratto da un testo medievale mīmāṃsaka, il Tantrarahasya di Rāmānujācārya. Come immaginabile, la discussione sulle piante si colloca all'interno di una discussione degli oggetti conoscibili (prameya), e in particolare delle sostanze (dravya). L'autore,che condivide l'atomismo Vaiśeṣika, in epoca medievale patrimonio comune di quasi tutte le scuole, si chiede di quali atomi siano composti i corpi. Dopo aver concluso (si veda la citazione nel paragrafo precedente) che essi sono composti di atomi di terra, aggiunge:
Quel che nasce da un germoglio/dall'acqua, ossia gli alberi e [le altre piante], non ha un corpo, poiché non ha fruizione (bhoga). Infatti, essere supporto della [fruizione] è lo scopo del [corpo]. E le affermazioni
Nel cimitero nasce un albero,accompagnato da corvi e avvoltoi (āgama ignoto).
L'uomo diviene pianta a causa dei difetti nel karman originati dal corpo (Manusmṛti 12,9).
non hanno indipendente [valore epistemico] poiché dipendono da quella prescrizione (che precede o segue nel testo), come nel caso di “l'animale sacrificale è il sacrificatore”, “il palo sacrificale è il sole”. Poiché contraddicono i mezzi di valida conoscenza.
(udbhijjaṃ tu vṛkṣādikaṃ na śarīram. bhogānupalambhāt. tadāyatanaṃ hi tatprayojakam. yad
api – śmaśāne jāyate vṛkṣaḥ kaṅkagṛdhropasevitaḥ || (āgama?)śarīrajaiḥ karmadoṣair yāti sthāvaratāṃ naraḥ || (manu. smṛ. 12.9). iti vacanaṃ tadvidhiparatantratayā na svatantram. yajamānaḥ paśuḥ (prastaraḥ) ādityo yūpaḥ itivat. pramāṇavirodhāt).
Come già accennato, śarīra indica i corpi in quanto viventi. Ai nostri fini è interessante che Rāmānujācārya debba imporre la propria idea contrastando una serie di citazioni,provenienti da testi non filosofici,quali la Manusmṛti e che puntano nella direzione opposta, provando cioè la senzienza delle piante (che sono equiparate a esseri viventi, per cui si dice dell'albero che “è nato”, jāyate) e la loro partecipazione al ciclo delle rinascite. Troviamo perciò anche al di fuori dell'ambito buddhista la stessa opposizione fra un'opinione prevalente favorevole alla senzienza delle piante e un'opinione (filosoficamente più raffinata?) che tale senzienza nega (si veda in merito l'illuminante (4)). La senzienza delle piante e la loro partecipazione al ciclo delle rinascite è quindi, prevedibilmente, ammessa dalle scuole viṣṇuite che considerano il Bhāgavatapurāṇa (un testo che testimonia dell'opinione comune anzidetta) un testo rivelato, ossia la scuola di Madhva, quella di Rāmāṇuja e quella di Caitanya.
È interessante infine notare come non sembra essere presa in considerazione la possibilità intermedia (spesso comunemente accettata in Occidente) che esistano esseri viventi,ma non senzienti (quali, appunto,i vegetali).

12.1 Gli animali

Praśastapāda,l'autore del Bhāṣya al Vaiśeṣikasūtra distingue fra
•esseri nati da un grembo
•esseri che non lo sono
Isecondi sono insetti e altri animali minuti, secondo Praśastapāda anche piante,e divinità.
I primi si dividono ulteriormente:
•nati da un uovo
•nati vivi

Un autore legato al momento di fusione fra Nyāya e Vaiśeṣika, Udayana, classifica invece le piante in un terzo gruppo.
I corpi degli animali, sostengono Nyāyasūtra e Vaiśeṣikasūtra,sono composti solo di atomi di terra. Creature divine hanno invece corpi d'acqua, di aria o di fuoco a seconda dei mondi in cui abitano. Del corpo non fanno parte i sensi che, come abbiamo visto nel dettaglio nel caso del Sāṅkhya, sono in India intesi come funzioni e non confusi con le rispettive localizzazioni fisiche. Tali sensi saranno composti di atomi corrispondenti al loro oggetto,per cui l'olfatto,che coglie una qualità propria della terra,è composto di atomi di terra, il gusto di atomi di acqua, il tatto di atomi d'aria, la vista di fuoco
e l'udito di etere.
Traggo infine una classificazione apparentemente “scientifica” degli animali da un testo medievale,il Tantrarahasya del mīmāṃsaka Rāmānujācārya:
Fra gli [oggetti conoscibili], solo la terra dà origine a corpi. Non gli altri elementi grossi,poiché [corpi fatti di altri elementi] non vengono mai percepiti e perché così si vede nella successione [senza inizio] di uomini e donne [i quali hanno corpi di terra] di oggi. Il contrario è semplicemente non esistente. Equesti [corpi fatti di terra] sono di tre tipi: nati da un utero,nati da un uovo,nati dall'umido. (tatra pṛthivy eva śarīrārambhikā. netarāṇi bhūtāni. tadanupalambhāt. idānīntanastrīpumparamparāyāś ca tathā darśanāt. viparītam asad eva. tac ca jarāyujāṇḍajasvedajabhedena
triprakāram eva).

Notiamo influenze naiyāyika (la classificazione del reale sotto l'etichetta di ciò che può essere conosciuto) e vaiśeṣika (la classificazione degli elementi,la genesi dei corpi), adattate però ai caratteri mīmāṃsaka. In generale, infatti, i mīmāṃsaka tendono a un acceso empirismo e a usare la percezione sensibile e il mondo come dato alla nostra esperienza quali parametri per giudicare della validità di una teoria o interpretazione.
Peraltro, la descrizione è solo apparentemente scientifica perché in realtà il criterio di fondo che la orienta è l'avere un corpo. Il “corpo” (śarīra) non è semplicemente un aggregato di atomi, bensì un aggregato che, al contrario di una zolla di terra o un ammasso di fango, ha uno scopo. Etale scopo è l'esperienza. Infatti, sensi, intelletto e possibilità motorie sono orientate al fine che noi possiamo esperire il mondo. Alla luce di tale criterio, non c'è differenza fra uomini, esseri divini e animali. Aggiungo lateralmente che si tratta di un criterio interessante e che si avvicina ad alcune elaborazioni di filosofi morali contemporanei. Rispetto alla distinzione classica per cui gli animali non possono avere gli stessi diritti dell'uomo poiché non sono razionali,ci si chiede infatti se la razionalità debba essere il criterio di fondo e non piuttosto la sensibilità intesa come capacità di percepire (to feel) e soffrire.

Questo spunto mi permette di passare a un altro aspetto dello status degli animali. Come già accennato, secondo l'opinone unanime di scuole “induiste”, buddhiste e giainiste,gli animali fanno parte del ciclo delle rinascite e la loro sorte è quindi paragonabile alla nostra. Si pone però un problema, se sia cioè possibile per gli animali l'emancipazione spirituale. Testi non filosofici “induisti” come il Mahābhārata o la Manusmṛti sembrano presupporre che ciò sia possibile,mentre l'opinione assolutamente prevalente nei testi filosofici è che solo a partire da una reincarnazione umana sia possibile la liberazione. Infatti,la vita umana è l'unica nella quale si realizzano le condizioni per la liberazione (mokṣa), grazie al buon equilibrio fra sofferenza (troppo intensa nelle rinascite animali perché ci si possa dedicare all'emancipazione spirituale) e piacere (troppo presente nelle rinascite divine perché si pensi alla necessità dell'emancipazione). Le scuole filosofiche che riconoscono parti del Mahābhārata o di testi simili come testi rivelati spiegano l'incongruenza dicendo che, seppure in linea di massima sia impossibile per un animale raggiungere la liberazione, tuttavia Dio, nella sua onnipotenza e libertà, può rendere chiunque oggetto della propria Grazia salvifica.
Una corrente tarda del Buddhismo Mahāyāna,però,detta “tathāgatagarbha”, sostiene che la natura di Buddha sia presente in nuce in ognuno, anche perciò negli animali e –pare– anche nelle piante (e in rocce e altre sostanze inanimate, secondo alcuni maestri cinesi e giapponesi)(cf. (3)).

12 La “natura” secondo i nostri paradigmi: flora e fauna

Ritorno alle premesse già rapidamente elencate all'inizio di questa indagine sulla natura nelle scuole filosofiche indiane:
premessa 1: reincarnazione e quindi continuità fra mondo umano-divino-animale (e,per alcune scuole,vegetale) (cf.(1)).
premessa 2: ahiṃsā come dharma comune alle varie scuole.
premessa 3: concetto di anādi, non creazione, per cui la natura non ha un inizio (o se lo ha,è un inizio ciclico).
La premessa 3 è fondamentale per capire la portata dell'idea di reincarnazione.
Poiché il ciclo è senza inizio, ogni essere vivente è già stato in rapporto con ogni altro. Nel Buddhismo,tale principio è esemplificato nell'idea che per ogni animale (anche per animali inferiori come vermi o altri invertebrati) dobbiamo provare compassione come ne proveremmo nei confronti di nostra madre, poiché ogni animale è in effetti stato nostra madre, dato che la reincarnazione si ripete in cicli senza inizio. Ciò fa sì che la violenza nei confronti degli animali sia necessariamente sentita come un'infrazione. Tale infrazione può essere giustificata sulla base, per esempio, dello svadharma del guerriero (ossia del dovere proprio alla sua condizione). Un guerriero deve infatti essere in grado di uccidere, se necessario. A tale scopo, è anche utile che sappia cacciare. Altrimenti, l'infrazione è giustificata sulla base di un ordine diretto dei testi sacri laddove viene ingiunto un sacrificio animale. Questa almeno è l'opinione delle scuole ortodosse, ma le lunghe argomentazioni che si trovano in proposito nei testi (specie mīmāṃsaka) mostrano con quanta difficoltà tale idea dovesse essere difesa da un'opinione prevalente ostile alla violenza sugli animali,anche nei sacrifici. Di fatto,l'opposizione alla violenza sacrificale sarà un caposaldo della critica del Buddha al mondo vedico.

11 L'approccio istantaneista del Buddhismo

Ilimiti temporali di questo breve corso non ci permettono di approfondire le caratteristiche dell'approccio buddhista al mondo che ci circonda, anche se nella prossima lezione parleremo di come il Buddhismo si rapporti alla natura come da noi intesa,ossia flora,fauna e loro habitat.
Ricordo solo alcuni punti di riferimento interpretativi cui abbiamo già fatto cenno. Le scuole del Buddhismo indiano, abbiamo detto nella prima lezione, condividono per lo più con l'Advaita Vedānta un approccio “illusionistico”. A differenza di questo, però,
l'illusione non è oggettivizzata, ossia proiettata al di fuori del soggetto conoscente, in una māyā che ci riguarda tutti allo stesso modo. Al contrario, l'illusorietà del mondo è per molte scuole buddhiste strettamente legata all'intervento del soggetto. Con “soggetto” non intendo riferirmi agli aspetti personali e privati di ciascuno di noi, bensì in primo luogo al nostro essere soggetti conoscenti. In tal senso, potremmo azzardare che molte scuole buddhiste abbracciano l'approccio epistemologico del Nyāya, per cui al centro è il soggetto conoscente e il mondo assume importanza solo in quanto è conosciuto, senza
però l'aderenza al realismo tipica del Nyāya.
Da tutto ciò deriva un ampio spettro di posizioni che va, cronologicamente e logicamente, dalla scuola
•Abhidharma, per cui esiste un mondo realmente esistente, ma a esistere sono i sensibilia (suono, qualità tangibili, colore/forma, gusto e odore) e non le sostanze che indebitamente postuliamo come loro supporto,
alla scuola
•Sautrāntika,per cui tali sensibilia hanno durata solo istantanea,
alle scuole
•Madhyamaka,per cui è impossibile affermare coerentemente l'esistenza di alcunché
e
•Cittamātra (o Yogācāra) per cui esistono solo flussi coscienziali.

10 Evoluzioni di tali concezioni di base: conseguenze nel tantrismo

Come evidenziato nel testo di Raffaele Torella, il Sāṅkhya ha esercitato una larga influenza nella cultura indiana, non tanto sulle altre scuole filosofiche “ortodosse” quanto sull'epica,lo Yoga, l'Ayurveda e sulle correnti così dette tantriche. Come spesso accade nel caso dell'India, anche nel caso di “tantrismo” abbiamo a che fare con un termine di difficile valutazione e certamente non univoco. Diciamo che al giorno d'oggi il termine viene usato in Occidente per pratiche e idee che hanno poco a che fare con i loro ascendenti indiani. Può essere interessante rintracciare le linee genetiche di tali idee,ma senz'altro esse non possono essere legittimamente prestate al mondo culturale indiano. Nell'India contemporanea, d'altronde, il termine tantrika ha assunto una connotazione negativa e indica per lo più praticanti di magia. In quanto segue, invece, mi riferisco a correnti impostasi a partire dalla metà del primo millennio della nostra era in ambiente buddhista e no e che enfatizzano il ruolo del rituale (proponendo però nuovi rituali, diversi da quelli vedici) e della devozione a un essere superiore dispensatore di grazia (Buddha e soprattutto i Bodhisattva da una parte,Śiva,Śakti o anche Viṣṇu dall'altra),che riconoscono una rivelazione ulteriore dopo quella vedica e che utilizzano una serie di pratiche a partire dall'iniziazione,al potere di alcune formule e grafemi (mantra, maṇḍala) e suoni in genere. Apartire da tali pratiche di ambito religioso si sviluppano anche scuole filosofiche che spesso prendono spunto dalle suddette pratiche per esplorarne possibili aspetti e significati. Così,l'attenzione per il potere di alcune formule linguistiche è all'origine della speculazione sul linguaggio di Utpaladeva (x secolo) e le pratiche sovversive di alcuni gruppi di aderenti sono ripensate e internalizzate in Abhinavagupta (xi secolo).
Tornando al legame con il Sāṅkhya, deriva da questo, forse attraverso il tramite dello Yoga, l'idea che il nostro aspetto naturale (nel senso di derivato da prakṛti,la quale è alla base anche di intelletto e senso dell'io) sia al contempo un legame e una risorsa. Èun legame in quanto ci separa dal riconoscerci come parte di Dio (al contrario del Sāṅkhya, le scuole tantriche sono generalmente teiste, come accennato), ma è anche una risorsa perché l'intervento su prakṛti ci permette di “coglierla in fallo” e liberarci dalla sua malia. Gli Śivasūtra di Vasugupta (forse ix secolo) spiegano perciò vari espedienti per sbirciare fra le giunture del continuum di prakṛti,coglierla in atto e passare così da parte di questa a suoi testimoni (sākṣin). Atale scopo le scuole tantriche usano spesso invece di una via di rinuncia progressiva all'azione e quindi a prakṛti in quanto azione, una via di intensificazione. Gettarsi in pieno in prakṛti, sperano, porta più rapidamente a scoprirla. Donde riti “enrgetici”.
Anche le divinità venerate hanno subito un'influenza Sāṅkhya. Gli adepti di scuole tantriche venerano infatti un Dio supremo, generalmente chiamato Śiva (Benefico) o Īśvara (Signore) che corrisponde alla pura coscienza (puruṣa) del Sāṅkhya. Come nel Sāṅkhya,viene generalmente ammessa una pluralità di coscienze individuali, anche se, come nell'Advaita Vedānta, così nelle scuole tantriche più estremiste Śiva è l'unica coscienza. Le nostre varie soggettività distinte non sono che illusorie,mentre in quanto esseri coscienti noi siamo già Śiva. Abhinavagupta parla perciò di rivelazione come riconoscimento (pratyabhijñā) della sostanziale identità fra anima individuale e Dio.
Resta però il problema dell'inattività dello spirito secondo il Sāṅkhya. Le scuole tantriche elaborano quest'aspetto in modi diversi. Le scuole più estreme oppongono a uno Śiva cosciente, ma affatto inattivo, la sua controparte femminile, o Śakti (Potenza, Energia). Questa sola è attiva e in grado di attivare Śiva, il quale, senza di lei, non è che śava (cadavere). Donde numerose raffigurazioni, tuttora visibili in India, in cui Śakti balla sul corpo inattivo di Śiva. Tali scuole, ovviamente, venerano Śakti anche al di sopra di Śiva stesso. Le scuole meno estreme, invece, come la succitata scuola del riconoscimento,dicono che l'attività è una qualità (guṇa) di Śiva, e che quindi non ha esistenza autonoma dal suo possessore (guṇin). In ogni caso,il radicale dualismo del Sāṅkhya è interrotto.
Viceversa, il Buddhismo tantrico distingue altrimenti fra una componente maschile attiva (identificata con l'upāya,il mezzo salvifico,ossia karuṇā,la compassione) e una componente femminile quieta (identificata con la conoscenza, prajñā). Aparti invertite, resta nell'iconografia come nel rituale e nei testi, lo stesso tipo di dualità e complementarietà.

9.4 Il Vedānta teista

Le scuole teiste si distinguono perciò dal Vedānta monista in quanto personalizzano il brahman, identificandolo con Dio. Ciò permette di porre maggiormente l'accento sul suo aspetto cosciente e di spiegare l'identità di ogni attività coscienziale come la non separatezza di ogni anima individuale da Dio. Per quanto riguarda l'esistenza del mondo empirico, le scuole teiste, con diverse gradazioni, abbandonano il monismo assoluto di Śaṅkara. Il Viśiṣṭādvaita Vedānta di Śrī Rāmānuja propone un “monismo con differenziazioni”, in cui cioè le anime individuali siano delle qualificazioni di Dio,unica sostanza esistente indipendentemente. Esse sono quindi qualificazioni dell'unica realtà che è brahman,Dio e non esiste altra sostanza. Tale brahman/Dio viene in tal modo a essere saguṇa (“dotato di qualificazioni”),in opposizione al brahman nirguṇa (“senza qualificazioni”, di cui non è possibile predicare nulla) di cui parla Śaṅkara. Simili sono le dottrine di Nimbarka e di Caitanya, che propone il bhedābhedavāda, ossia la teoria della “differenza/non differenza” fra Dio e anima individuale e fra Dio e mondo. Dio, sostengono i sostenitori di tale teoria,è insieme differente e non differente dalle anime individuali e dal mondo. Ciò non è spiegabile logicamente,poiché la natura di Dio sfugge alla logica umana e può essere colta solo nella poesia,in cui non vige il principio di non contraddizione ed è possibile enunciare la natura paradossale (nel senso di “al di là dell'opinione [logicamente sostenibile]”) di tale relazione. Lo status di māyā è allora descritto come quello di una pura devota (bhākta) di Dio e quanto è ontologicamente problematico viene risolito sul piano poetico.
All'estremo opposto rispetto a Śaṅkara si trova Madhva (XIIIsecolo), fautore del dualismo (dvaita), che sostiene l'esistenza di cinque differenze (bheda): fra Dio e le anime individuali, fra Dio e le sostanze materiali, fra le sostanze materiali e le anime individuali, fra le sostanze materiali fra loro e fra le anime individuali fra loro. Secondo Madhva,l'unica differenza ontologica fra Dio e mondo e fra Dio e anime individuali sta nel fatto che solo Dio è indipendente, ossia esiste autonomamente,mentre sostanze materiali e anime individuali esistono in quanto si appoggiano a Lui. Èproprio tale distinzione a tracciare una linea di demarcazione netta fra Dio da una parte e anime individuali e sostanze materiali dall'altra.